Quando iniziamo a scrivere una storia, ci illudiamo di essere gli unici artefici. Stabiliamo chi sono i nostri personaggi, quale ruolo avranno, quali eventi vivranno. Li scegliamo con cura: un nome evocativo, tratti fisici ben delineati, un passato credibile, un obiettivo da inseguire. Eppure, col tempo, qualcosa cambia. Una frase imprevista, un gesto fuori copione, una reazione che non avevamo previsto… e ci rendiamo conto che non siamo più soli alla scrivania. C’è lui, lei, loro, che ci fissano da dentro la pagina e chiedono di essere ascoltati.
La meraviglia dell’imprevisto
Ricordo bene la prima volta che mi è successo. Stavo
scrivendo un racconto e uno dei personaggi minori, un’ombra sullo sfondo,
improvvisamente ha preso parola. Ha detto qualcosa che non avevo pianificato. E
quel gesto, quel frammento, ha cambiato tutto. Non potevo più ignorarlo. Era
come se mi stesse dicendo: "Non mi hai capito. Io non sono quello che
pensavi." E aveva ragione. Da lì in poi ha preteso spazio, profondità,
umanità. È diventato altro. È diventato reale.
Non accade sempre, ma quando succede è un miracolo. È come
se la storia, attraverso i suoi personaggi, volesse mostrarti qualcosa che
ancora non sai. Allora tu scrittore, invece di condurre, devi imparare a
seguire. Diventi esploratore del tuo stesso racconto. Ti sorprendi a chiederti:
"Ma davvero ha fatto questo?" oppure "Perché ha
mentito? Non era nel suo carattere!" E invece sì, lo era. Solo che
ancora non lo sapevi.
Personaggi come specchi
A volte, i personaggi ci raccontano più di noi stessi di
quanto vorremmo ammettere. Si muovono nei territori della nostra psiche,
accendono luci su angoli bui, danno voce a parti sommerse. E ci obbligano a
guardarci allo specchio. Quando un personaggio ci sfugge di mano, spesso non è
un errore: è un messaggio. Forse qualcosa che dovevamo esplorare, un’emozione
repressa, un dubbio mai risolto.
Prendete ad esempio Mr. Hyde, nato come l’alter ego di un
rispettabile dottore. Stevenson non lo ha semplicemente creato: lo ha riconosciuto.
Hyde era già lì, dentro il Dr. Jekyll, e forse dentro lo stesso autore. Ogni personaggio
contiene una parte di verità, anche quando è oscuro, disturbante o ambiguo. Ed
è proprio quando li lasciamo liberi di esprimersi che la narrazione acquista
autenticità.
Il misterioso patto narrativo
Scrivere significa anche accettare questo patto silenzioso:
i personaggi non sono nostri prigionieri. Hanno una loro etica, una loro
coerenza interna, e – quando la storia è viva – iniziano a pretendere di essere
fedeli a se stessi. È come se dicessero: "Puoi scrivere di me, ma non
puoi farmi dire ciò che non direi."
Questa autonomia non è un difetto nella scrittura, bensì una
delle sue massime conquiste. Quando i personaggi diventano così veri da
sorprendere chi li ha creati, vuol dire che siamo riusciti a toccare qualcosa
di profondo. E la magia accade proprio lì: nella tensione tra controllo e
abbandono, tra progetto e ascolto.
Un invito all’ascolto
Chi scrive lo sa: le storie migliori non sono sempre quelle
che seguiamo alla lettera come erano state pianificate. Sono quelle che ci
costringono a deviare, ad aprire porte inaspettate, a lasciare che siano i
personaggi a guidarci. L'autore diventa allora il primo lettore del proprio
testo, in un gioco meraviglioso di scoperta reciproca.
Scrivere è un atto di creazione, sì, ma anche di dialogo. E
quel dialogo – se lo lasciamo fluire – può portare ovunque. Anche dentro di
noi.
Perché sì, i personaggi ci guardano. E a volte, vedono prima
di noi chi siamo davvero.
Che meraviglia hai scritto Giuseppe! Personaggi che autonomamente si vestono da protagonisti, comprendono quale vita possiamo donar loro, e salgono alla ribalta di ogni storia, in piena autonomia, mentre noi osserviamo di cosa siamo capaci.
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