O’Carolan
nacque a Nobber, nella contea di Meath. All’età di 14 anni si spostò
con la sua famiglia a Ballyfarnan, nella contea di Roscommon, dove suo
padre andò a lavorare presso la famiglia MacDermott Roe. La sig.ra
MacDermott gli diede la possibilità di istruirsi. Da subito emerse il
suo talento poetico. Il vaiolo lo rese cieco all’età di 18 anni.
O’Carolan studiò arpa per tre anni, poi presi un cavallo e una guida
cominciò a percorrere l’Irlanda, da un capo all’altro, componendo
canzoni per i nobili. Ha praticato il mestiere di arpista itinerante per
50 anni. Celebrato già in vita, più come poeta che come compositore,
morì nella casa del suo benefattore McDermott Roe nel 1738.
Il
testo nasce proprio dalla biografia di quest’uomo e racconta gli ultimi
tre anni della sua vita in maniera scorrevole e coinvolgente.
Il
filo conduttore del libro è sicuramente la ricerca, il tormento
interiore di uno spirito inquieto. Ciò appare chiaro già quando vi si legge: “Turlough O'Carolan, ultimo bardo errante d’Irlanda è la vita
di un uomo che divenne leggenda. Sempre alla ricerca di nuove alchimie
per alimentare lo spirito, la sete di perfettibilità, la fame di
eternità. Un viaggio votato all’inseguimento della felicità e dei
sogni”. Già nel primo capitolo si assapora questa sete di perfezione “…il suo spirito, che andava sempre alla ricerca del suono perfetto, non si sentiva appagato”.
È
lo stesso O'Carolan a manifestare la sua inquietudine dicendo: “Non
riesco a darmi pace, sapete? Non so come spiegarvelo: è come se qualcuno
o qualcosa mi spinga a farlo. Non so cosa sia. Forse è questa matta
voglia che circonda noi artisti di non essere mai paghi di quello che
facciamo…, di quello che siamo. Siamo sempre in continua ricerca di cose
nuove, di stimoli sempre freschi… Forse è la paura di restare soli,…
Forse è il desiderio di non essere ricordati in futuro, forse è il
desiderio di eternità, forse è il desiderio di amare e di essere amati.
Forse è perché ci piace fare cose strane. Non saprei, davvero. Forse
sono tutte queste cose messe insieme. Lo so, siamo pazzi. Ma chi non lo
è, d’altronde? Ognuno ha le sue pazzie. E io ho le mie”.
Un altro aspetto
da sottolineare è la capacità descrittiva dell’autore, che dipinge con
le parole gli incantevoli paesaggi irlandesi come un pittore farebbe con
i suoi pennelli.
L’Irlanda
di cui si parla nel testo con dovizia di dettagli geografici è quella
martoriata dall’invasione inglese e quindi dallo scontro religioso tra
cristiani cattolici e anglicani. “C’era un clima di oppressione che
gridava: “Libertà!”, e che, da un momento all’altro, minacciava di
esplodere nuovamente”.
“L’Irlanda
– si legge ancora nel capitolo 7 – era divisa ancora in tanti piccoli
regni e questa frammentazione facilitò l’opera degli inglesi che
cercarono in ogni modo di imporre la religione protestante".
Poi, ancora
nel capitolo 10, una scena rappresenta lo strazio della guerra “Un
villaggio di cristiani cattolici era stato attaccato dalle truppe
inglesi di religione anglicana. Erano rimasti solo pochi ruderi. La
chiesa, al loro passaggio, era ancora in fiamme. Un vecchio batteva i
pugni contro la terra, sporca del sangue del suo popolo, e imprecava”.
L’assurda
atrocità della guerra è condannata da O'Carolan che rivolgendosi al suo
compagno di avventure dice: “Phelan, io vi voglio bene, ma dovete
crescere. A volte, vedete, mi sembrate proprio un bambino! Non vi
offendete, però. Lo dico nel senso buono”, replicò Carolan. E poi
continuò: “La questione poi è molto complicata. Non si possono dare
delle risposte scontate, né tantomeno si possono trovare soluzioni
semplicistiche ai problemi della vita e della storia. Sappiate che anche
la Chiesa Cattolica in tempi passati ha ammazzato la gente in nome di
Dio. Chi incolpare, Phelan? Io non condanno la Chiesa. Condanno gli
uomini che si arrogano il diritto di ergersi al di sopra di Dio, e si
fanno giudici; tra questi naturalmente, ci sono anche uomini di chiesa”.
Lo
spirito patriottico di Carolan, emerge quando Pelan, suo compagno di
viaggio, lo invita a scansare il pericolo chiedendo protezione a qualche
nobile del posto, anche se inglese, in nome della sua arte “Questa è la
mia terra, la mia patria. Io non abbandonerò mai il mio popolo. Le
offese che subisce il mio popolo sono anche le mie. Non lascerò la mia
terra a degli stranieri. E voi dovreste vergognarvi per quello che dite.
La prossima volta che dovete proferire parola è meglio che ci pensiate
due volte. Dovreste essere più orgoglioso di appartenere a questo
popolo, diamine! Le vostre parole mi hanno offeso Phelan”.
La sofferenza
causata dalla situazione in cui versa il suo popolo fa sprofondare
Carolan in un profondo silenzio “Quale abisso l’animo umano! Insondabili
e profondi i suoi pensieri. Volle restare solo, lì, sospeso tra la
terra e il cielo, immerso nei suoi pensieri”.
Molto
chiaramente più avanti si legge dello stato d’animo dell’arpista
“All’età di 65 anni si sentiva vecchio. Era stanco. Stanco della
situazione di non vedente, stanco di viaggiare per tutta l’isola, stanco
di dare consigli ai politici, religiosi e nobili che lo ospitavano.
Stanco per tutto quello che stava succedendo nella sua isola.
Era per questo motivo che si era ritirato lontano dai problemi e dai pettegolezzi di corte e dalle parrucche incipriate.
In
questo momento, il più grande bardo errante dell’isola d’Irlanda, il
vate, il profeta, stava amando più che mai la solitudine. Sentiva il
bisogno estremo di restare con la propria anima”.
Poi ancora “Il
silenzio, ormai, durava da giorni e aveva preso dimora nel suo corpo.
Anche la sua arpa non emetteva più alcun suono. Era da tempo infatti che
le corde non vibravano più”.
Un
aspetto direi fondamentale del racconto è l’inseguimento dei sogni e
della felicità. Alla maniera di Paulo Choelo possiamo dire “è proprio
l’idea di realizzare un sogno a rendere la vita interessante. Ebbene, il
desiderio di Carolan è suonare la sua arpa a Malin Head, davanti
all’oceano. Raggiunta la meta, si riparte per Dublino dove si ritorna ai
fasti della vita da artista di corte, accolto e stimato da tutti, oltre
che conteso. Con l’arrivo a Dublino, arriva la stabilità e un po’ di
riposo dopo tanto girovagare.
Il
viaggio iniziato il 27 aprile 1735 si concluderà il 25 marzo 1738. Se
l’Irlanda è dunque una protagonista silenziosa del racconto, Phelan è
parte attiva e spalla di Carolan, un fidato compagno di avventure, un
amico fraterno
Dopo
quest’inno all’amicizia, concludo il mio intervento citando Turlough
O’Carolan a cui, con queste parole Giuseppe Marino fà aprire il racconto “Vasta è la mia fama quanto lo è il cielo. Io sono il migliore
riguardo la potenza del mio dito, nessuno mai potrà trovarsi a
competere con me”.
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