Io
non sono un critico letterario. Sono, come dico sempre, un’utente
appassionata dei libri. Un libro è un viaggio emozionante. La bellezza
di un libro è incomprensibile a chi non li ama, è usare la fantasia, è
“leggere” la fantasia. Leggere significa entrare in un periodo, in un
personaggio, è immedesimazione, svago, conforto, curiosità. Come
d’altronde apprezzo ed ammiro chi scrive: scrivere fa ragionare con se
stessi, facendo affrontare i propri fantasmi, scandagliare il proprio
inconscio più recondito vero percorso di crescita individuale e
personale. Per cui, sono non qui ad analizzare il libro nel suo
contenuto, nella sua forma ma ad esprimere le sensazione che esso mi ha
dato.
Un libro non lo si
può presentare senza dire alcune cose essenziali sull’autore, in questo
caso Giuseppe Marino, che, oltre ad essere un mio concittadino, conosco
da sempre: siamo stati compagni di scuola. Poi l’ho ritrovato nella sua
veste di docente, scrittore e cultore di filosofia. I suoi
studi, maturità classica e studi teologici, si possono rinvenire nei
suoi scritti: l’autore si è già cimentato nella scrittura pubblicando
una raccolta di poesie, “L’eternità e due pugni di sabbia”, e
pubblicazioni a carattere filosofico religioso incentrati sul dramma
della ricerca di Dio, sulla scoperta della finitudine dell’uomo di
fronte all’infinito e l’onnipotenza di Dio. Libri sulla ricerca,
dell’Assoluto, dell’eterno. La Ricerca è lo stesso filo conduttore che
ritroviamo in questo libro. Perché anche questo
libro è un libro sulla ricerca. Ricerca della felicità.
Il
racconto è ambientato negli anni tra il 1735 e il 1738, in un’Irlanda
insanguinata dalla pesante dominazione inglese e quindi dalla guerra di
religione tra anglicani e cattolici. Il periodo più travagliato della
storia d’Irlanda. Gli inglesi erano riusciti ad ottenere il controllo
dell’intera isola, facilitati dalla frammentazione dell’Irlanda in tanti
piccoli regni, e ad imporre la loro religione protestante.
Espropriarono le terre agli irlandesi per darle ai coloni inglesi e
scozzesi che furono trapiantati sull’isola in numero considerevole. Con
le Leggi Penali fu tolto agli isolani cattolici ogni diritto umano,
civile e politico. Vi era fame, miseria e povertà ovunque. In questo
contesto, si raccontano gli ultimi anni di vita di O’Carolan, l’ultimo
BARDO d’Irlanda.
Il
termine “Bardo” è di origine celtica e si riferisce alla figura del
musicista itinerante. I bardi erano cantori raminghi, giullari sì ma
dotti, poiché narravano gesta e leggende di cose realmente accadute,
ingigantendole. Il bardo era dunque un latore di notizie, il cui compito
fondamentale era informare, raccontare cosa stesse succedendo in terre
lontanissime e irraggiungibili per chi ascoltava.
Il
racconto narra gli ultimi anni di vita di O’Carolan, mitico “bardo”,
musicista itinerante, eccellente suonatore irlandese d’arpa celtica.
Vissuto realmente che, ammalatosi di vaiolo a diciotto anni, diventò
completamente cieco. A 65 anni si sente vecchio, stanco. Stanco della
situazione di non vedente, stanco di viaggiare per tutta l’isola, stanco
di dare consigli ai politici, religiosi e nobili che l’ospitavano.
Stanco di vedere la propria terra martoriata. Sente il bisogno estremo
di restare con la propria anima e di realizzare il proprio sogno.
Insieme al suo compagno di viaggio, il fidato Phelan, addolorato nel
vedere il suo Maestro sprofondato in uno spaventoso ed assurdo silenzio, compie il suo ultimo viaggio percorrendo la propria terra. Non vi dirò che sogno è…
Il
racconto è un Viaggio nella storia di un popolo lontano storicamente e
geograficamente, di unicità paesaggistica, naturalistica e ricchezza
culturale. Tra paesaggi suggestivi tipici d’Irlanda con i suoi colori e i
suoi profumi, spesso segnati da devastazioni di guerra, razzie e
rappresaglie ed evocazioni di antiche storie e leggende, la narrazione è coinvolgente.
La lettura è molto agevole è un libro che si legge tutto d’un fiato.
E’ facile per il lettore immedesimarsi nel protagonista:
dovrà confrontarsi con la sete di conoscenza, l’ansia continua di
perfezione dell’artista, l’irrefrenabile desiderio di realizzare il suo
sogno, di cercare la felicità.
Sogno che porta inevitabilmente alla sofferenza: in fin dei conti
cercare la felicità è come compiere un viaggio che può avere momenti
intensi ed anche dolorosi.
Ci fa riflettere sull’importanza del sogno.
E’ giusto fare di tutto affinché si avverino? Il sogno ci proietta nel
futuro e quindi non bisogna mai smettere di alimentarli. Pur rimanendo
realistici. I sogni si inseguono anche da vecchi. Non bisogna mai
stancarsi di inseguire i propri sogni. I sogni mostrano la cosa
realizzata, quindi un possibile futuro. In questo senso li inseguiamo,
perché se percorriamo la stessa strada che hanno percorso loro per
arrivare lì, è possibile che ci arriviamo anche noi… Mi viene in mente
una poesia di P. Neruda che recita “Lentamente muore chi… non rischia la
certezza per l’incertezza, per inseguire un sogno”.
Colpisce
particolarmente la figura dei Phelan. Commovente compagno di viaggio
legato ad O’ Carolan da sincera amicizia, pur essendo più giovane di
lui, di una trentina d’anni. Ama il suo Maestro, non vi sono segreti fra
loro, pronto ad affrontare e combattere chissà quali ostacoli pur di
far felice il suo amico. Ecco descritto un modo inedito di considerare
il rapporto tra le generazioni. In questo senso, il rapporto tra le
generazioni, è uno scambio, segnato da libertà e da rischio. Si scopre
che vi sono diversi modi di vivere le diverse generazioni, oltre i
legami di sangue, attraverso i legami di affinità, amicizia,
fratellanza… le diverse generazioni, comunque definite, non sono da
considerarsi come gruppi chiusi, ma come persone in relazione.
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