Recensione di Raffaele Rinaldi
Nella vita e per mestiere sono più abituato a raccontare la ruvida prosa dei mendicanti che la sublime poesia del viandante, indagare le opache ragioni del vagabondo che le vivide passioni del cercatore, e soprattutto ricomporre le storie di un “perdersi” nelle moderne parabole del figliol prodigo. Assaporare il libro di Giuseppe Marino “Il viandante e il divoratore di Falene” è stata l’occasione per ri-cordare (conservare nel cuore) gli anni di studi filosofici trascorsi insieme nel comune percorso di ricerca e amore per la verità, e adesso che le nostre strade si sono intrecciate di nuovo lo riscopro insegnante, scrittore, impegnato nell’azione civile e culturale. Tutti elementi che trovano la loro trasfigurazione poetica in questo diario dell’anima dove ogni poesia segna la tappa di un viaggio la cui grandezza viene affidata alle possibilità e alla debolezza della parola umana.
Ci troviamo nell’epoca del “villaggio globale” (McLuhan) che ha visto accorciarsi il tempo e lo spazio, dove si compiono i viaggi interplanetari. Sono ancora fresche le immagini dei principali TG mondiali che mostravano con enfasi, in diretta o in differita, l’atterraggio della Cristoforetti che concludeva la missione spaziale durata circa 7 mesi restituendoci immagini mozzafiato che abbracciano i più vasti orizzonti, panorami universali, visioni senza frontiere, nuvole gassose e scie luminose che si stagliano sullo sfondo buio dell’universo.
Il fascino di queste possibilità umane stringe il passo nell’associare questo cognome a quello di Cristoforo Colombo scoprendone la stretta parentela fonetica e vocazionale, e pone una domanda universale:
“[…] che cos’è l’uomo nella natura? Un niente rispetto all’infinito, un tutto rispetto al niente, un punto che sta in mezzo tra il tutto e il niente. Infinitamente lontano dal comprendere questi due estremi, la fine e il principio delle cose gli sono invincibilmente celati in un segreto impenetrabile; ugualmente incapace di vedere il nulla da cui è stato tratto e l’infinito che lo inghiotte” (Pascal, Pensieri, 72)
Il viaggio di Marino si pone in questa direttrice esistenziale e spirituale nello stesso tempo, andando inevitabilmente a rintracciare quei viaggi paradigmatici della cultura greca ed ebraica rispettivamente di Ulisse che, osando l’arroganza di spingersi alle colonne d’Ercole del limite umano, Dante lo colloca - maestoso - all’inferno consegnandogli sulle labbra queste solenni parole: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, e di Abramo che parte da Ur dei Caldei verso una terra promessa la cui esperienza fissa il credo storico del popolo ebraico che viene perennemente ricordato con l’incipit: “Mio padre era un arameo errante…”
Mi chiedo se effettivamente la profonda vocazione dell’uomo, l’intima sua natura, non consista proprio nel viaggio, nell’ex-per-ire, questo uscire-per-andare nell’eterno partire verso una verità nomade.
In fondo il libro racconta di un avventura, un viaggio: un partire, un perdersi e un ritrovarsi, un pro-tendere verso l’infinito. Attraversa gli stati d’animo, ascolta corpo, anima e cuore come luoghi dove umano e divino s’incontrano e si scontrano. Gli elementi della natura - acqua, terra, aria e fuoco - si mescolano e si dividono, ed anche gli elementi cosmici - dalla stella alla goccia di rugiada - velano e svelano una assenza presente ed una presenza assente nel continuo alternarsi di alba, meriggio e tramonto.
Giuseppe Marino non ci guida in un viaggio alla scoperta della natura descrivendone le manifestazioni e l’effetto che provocano nell’animo, ma - nel solco di una spiritualità condivisa - risponde all’esigenza intrinseca umana di valicare se stessi verso un Altro ed un Oltre.
“E gli uomini se ne vanno a contemplare le vette delle montagne, i flutti vasti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’Oceano, il corso degli astri, e non pensano a se stessi” (S. Agostino, Confessioni, libro X, cap IX)
Se il detto latino “Errando discitur” comincio a tradurlo non nel senso dell’errore ma del viaggiare allora “Il viandante e il divoratore di falene” può essere il viaggio che vale la pena di affrontare, e dove è possibile ritrovarsi fino in fondo,
anzi…fino in cima.
Raffaele Rinaldi
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