L'Ultimo Cantore d'Irlanda
Recensione di Vincenza Musardo Talò
La narrativa
italiana, con questo ulteriore lavoro di Giuseppe Marino, si arricchisce di un
contributo valido, teso soprattutto a veicolare un singolare e interessante
aspetto della cultura irlandese di età moderna ma ancorata a suggestivi
elementi e figure, preesistenti al fenomeno della romanizzazione del mondo
anglossassone. Trattasi di un romanzo breve o di un racconto lungo, come dir si
voglia; ma non importa come definire questa fascinosa storia, legata alla
specificità della cultura etnica del popolo irlandese; l'Autore, sul filo dei
miti gaelici e delle leggende degli antichi Celti, ricostruisce, in maniera
verosimile, ambienti ed eventi entro cui trova la sua giusta collocazione la
vicenda esistenziale del protagonista, il cieco Turlough O'Carolan, poeta
errante, compositore e arpista d'eccezione O'Carolan è un personaggio reale a
ben storicizzato, vissuto tra il 1670 e il 1738. Col suo cavallo e un fedele
scudiero, per quasi mezzo secolo egli passò per le verdi e boscose contrade e i
grandi e minuscoli villaggi irlandesi, regalando a tutti la sua insuperabile
poesia in note. La sua fama fu grande presso le tante dimore aristocratiche
dell'Isola; egli entrò, atteso e onorato, nei castelli dei nobili, suoi
generosi mecenati e a ognuno lasciò una delle sue divine composizioni.
Le fonti parlano di oltre duecento ballate o romanze, in cui
egli trasmise i variegati elementi della cultura e della lirica elegia del
popolo celtico, ricco di un patrimonio di riti ancestrali. Ad esempio, l'Autore
dà conto, fra i tanti rituali che connotavano il ciclio delle stagioni, della
festa corale della luce, che cadeva ogni anno ai primi di Maggio, segnando il
Capodanno.
Era la festa del fuoco di Bel, celebrata in onore del dio
della luce, Belenus. L'intera nazione irlandese gli riservava riti
propiziatori, in cui era predominante il rito del fuoco, accompagnato da danze
etniche, allegri convivi, doni di ghirlande primaverili e musiche tradizionali.
E, da sempre, la figura che meglio solennizzava l'arrivo del nuovo anno era il
bardo, che con la sua arpa, ora dal suono mesto, ora solenne o gioioso, faceva
rivivere l'orgoglio nazionale e rinsaldava il sentimento dell'appartenenza a
quella terra magica e misteriosa. "L'arpista era tenuto in grande
considerazione, non solo da tutte le corti, dove esercitava la sua
ineguagliabile arte, accompagnando i suoi innumerevoli racconti che tessevano
trame d'amore, di guerra, di amicizia, ma da tutto il popolo; il popolo intero
che durante le sere, rischiarate e riscaldate dal fuoco, al chiaro di luna, si
beava di quela musica celestiale e faceva l'amore". L'arpista era una
sorta di icona del sacro e non si toccava. Turlough O'Carolan, in particolare,
era diventato una leggenda vivente e rappresentava la sapienza degli antichi
sacerdoti, i druidi.
Il Marino è il primo, in Italia, a scrivere su questo
poeta-musico, che seppe fondere la tradizionale musica popolare della sua
patria con le istanze della musica colta del secolo dei lumi. In tal senso,
egli subì la vaghezza delle suggestioni melodiche della raffinata musica di
Handel e di quella barocca itraliana. Nei suoi viaggi a Dublino e in una tarda
permanenza di tre anni, trascorsa nei salotti aristocratici, presso cui si
esibiva, O'Carolan ascoltò sovente la musica di due violinisti e compositori
italiani, A. Corelli (1653-1713) e Vivaldi di Venezia (1678-1741),
ambedue noti per l'ammaliante tecnica violinistica. E pare si cimentasse egli
stesso con un allievo del Corelli, Francesco Geminiani, anch'egli attivo nella
terra dei Celti. Sembrerebbe che i due talenti si siano apprezzati a vicenda e
abbiano stretto un'amicizia artistica. Quando, il 25 marzo del 1738, O'Carolan
lasciò questa terra, allora morì la leggenda e nacque il mito, dice l'Autore.
Non a caso, in questo suo lavoro, Marino ha saputo
descrivere il bardo come l'Omero dell'Irlanda, come l'elegiaco cantore della
terra delle fate e dei maghi, come di un eroe romantico, che ha pianto e
sofferto per la patria sottomessa: "...questa è la mia terra, la mia
patria. Io non abbandonerò mai il mio popolo. Le offese che subisce il mio
popolo sono anche le mie". E intanto, si accompagnava con le note tristi
della sua arpa, divenuta emblema e simbolo dell'anima della nazione, l'Irlanda,
che ha vissuto e vive ancora oggi la storia più dolorosa delle Isole degli
Angli.
Vincenza Musardo Talò
la bellezza della musica celtica si intona meravigliosamente con gli incantevoli paesaggi d'Irlanda, nazione lontana ma con molte caratteristiche in comune con il nostro Paese...soprattutto il caldo temperamento del suo popolo che non ha mai accettato di essere dominato da altri popoli...proprio come il nostro...
RispondiEliminaHai perfettamente ragione. Sulla musica così come sul paesaggio. E anche sul temperamento del popolo irlandese, orgoglioso, nel senso buono, delle proprie origini e della propria storia!
Elimina