E quando apparirai sul confine rosso dell'orizzonte beneamata agognata immagine non sciogliere i tuoi contorni nei colori dei tramonti.

mercoledì 30 maggio 2012

L'Ultimo Cantore d'Irlanda. Recensione di Vincenza Musardo Talò


L'Ultimo Cantore d'Irlanda


Recensione di Vincenza Musardo Talò


La narrativa italiana, con questo ulteriore lavoro di Giuseppe Marino, si arricchisce di un contributo valido, teso soprattutto a veicolare un singolare e interessante aspetto della cultura irlandese di età moderna ma ancorata a suggestivi elementi e figure, preesistenti al fenomeno della romanizzazione del mondo anglossassone. Trattasi di un romanzo breve o di un racconto lungo, come dir si voglia; ma non importa come definire questa fascinosa storia, legata alla specificità della cultura etnica del popolo irlandese; l'Autore, sul filo dei miti gaelici e delle leggende degli antichi Celti, ricostruisce, in maniera verosimile, ambienti ed eventi entro cui trova la sua giusta collocazione la vicenda esistenziale del protagonista, il cieco Turlough O'Carolan, poeta errante, compositore e arpista d'eccezione O'Carolan è un personaggio reale a ben storicizzato, vissuto tra il 1670 e il 1738. Col suo cavallo e un fedele scudiero, per quasi mezzo secolo egli passò per le verdi e boscose contrade e i grandi e minuscoli villaggi irlandesi, regalando a tutti la sua insuperabile poesia in note. La sua fama fu grande presso le tante dimore aristocratiche dell'Isola; egli entrò, atteso e onorato, nei castelli dei nobili, suoi generosi mecenati e a ognuno lasciò una delle sue divine composizioni.

 

Le fonti parlano di oltre duecento ballate o romanze, in cui egli trasmise i variegati elementi della cultura e della lirica elegia del popolo celtico, ricco di un patrimonio di riti ancestrali. Ad esempio, l'Autore dà conto, fra i tanti rituali che connotavano il ciclio delle stagioni, della festa corale della luce, che cadeva ogni anno ai primi di Maggio, segnando il Capodanno.

 

Era la festa del fuoco di Bel, celebrata in onore del dio della luce, Belenus. L'intera nazione irlandese gli riservava riti propiziatori, in cui era predominante il rito del fuoco, accompagnato da danze etniche, allegri convivi, doni di ghirlande primaverili e musiche tradizionali. E, da sempre, la figura che meglio solennizzava l'arrivo del nuovo anno era il bardo, che con la sua arpa, ora dal suono mesto, ora solenne o gioioso, faceva rivivere l'orgoglio nazionale e rinsaldava il sentimento dell'appartenenza a quella terra magica e misteriosa. "L'arpista era tenuto in grande considerazione, non solo da tutte le corti, dove esercitava la sua ineguagliabile arte, accompagnando i suoi innumerevoli racconti che tessevano trame d'amore, di guerra, di amicizia, ma da tutto il popolo; il popolo intero che durante le sere, rischiarate e riscaldate dal fuoco, al chiaro di luna, si beava di quela musica celestiale e faceva l'amore". L'arpista era una sorta di icona del sacro e non si toccava. Turlough O'Carolan, in particolare, era diventato una leggenda vivente e rappresentava la sapienza degli antichi sacerdoti, i druidi.

 

Il Marino è il primo, in Italia, a scrivere su questo poeta-musico, che seppe fondere la tradizionale musica popolare della sua patria con le istanze della musica colta del secolo dei lumi. In tal senso, egli subì la vaghezza delle suggestioni melodiche della raffinata musica di Handel e di quella barocca itraliana. Nei suoi viaggi a Dublino e in una tarda permanenza di tre anni, trascorsa nei salotti aristocratici, presso cui si esibiva, O'Carolan ascoltò sovente la musica di due violinisti e compositori italiani, A. Corelli (1653-1713) e  Vivaldi di Venezia (1678-1741), ambedue noti per l'ammaliante tecnica violinistica. E pare si cimentasse egli stesso con un allievo del Corelli, Francesco Geminiani, anch'egli attivo nella terra dei Celti. Sembrerebbe che i due talenti si siano apprezzati a vicenda e abbiano stretto un'amicizia artistica. Quando, il 25 marzo del 1738, O'Carolan lasciò questa terra, allora morì la leggenda e nacque il mito, dice l'Autore.

 

Non a caso, in questo suo lavoro, Marino ha saputo descrivere il bardo come l'Omero dell'Irlanda, come l'elegiaco cantore della terra delle fate e dei maghi, come di un eroe romantico, che ha pianto e sofferto per la patria sottomessa: "...questa è la mia terra, la mia patria. Io non abbandonerò mai il mio popolo. Le offese che subisce il mio popolo sono anche le mie". E intanto, si accompagnava con le note tristi della sua arpa, divenuta emblema e simbolo dell'anima della nazione, l'Irlanda, che ha vissuto e vive ancora oggi la storia più dolorosa delle Isole degli Angli.  
 

Vincenza Musardo Talò




2 commenti:

  1. la bellezza della musica celtica si intona meravigliosamente con gli incantevoli paesaggi d'Irlanda, nazione lontana ma con molte caratteristiche in comune con il nostro Paese...soprattutto il caldo temperamento del suo popolo che non ha mai accettato di essere dominato da altri popoli...proprio come il nostro...

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    1. Hai perfettamente ragione. Sulla musica così come sul paesaggio. E anche sul temperamento del popolo irlandese, orgoglioso, nel senso buono, delle proprie origini e della propria storia!

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