venerdì 15 luglio 2016

Il viandante e il divoratore di falene. Recensione di Egidio Lenti

Il viandante e il divoratore di falene


Recensione di Egidio Lenti

Caro Giuseppe,

mi avevi chiesto, con la tua consueta discrezione e amabilità e direi quasi con titubanza, se volessi scrivere qualcosa sul tuo più recente lavoro, di poesia stavolta, una breve presentazione, qualche considerazione, un giudizio soprattutto sincero e non edulcorato. Accolsi però la richiesta come schermendomi e facendoti notare che il versante della mia produttività era orientato più al realismo della prosa anche piattamente cronachistica che alle profondità o alle vastità cui sanno giungere le poche parole di uno scarno verso.

Qualsiasi cosa tu voglia scrivere mi va bene, rispondesti, certamente fidando anche sulla stima reciproca che caratterizza i nostri rapporti e sul comune interesse, mirato alla crescita culturale della nostra comunità, cui dedichiamo anche come volontari le nostre energie. E allora mi metto al lavoro e inizio a immergermi nuovamente nella lettura dei tuoi versi, più analitica che non come avvenuto in precedenza, non trascurando però di approfondire meglio quanto trovo nelle due prefazioni di altri nostri cari amici.

A questo punto però cominciano i miei dubbi, anzi uno e pressante: cosa sarò in grado di dire dopo quella puntuale, profonda, chiara e ricca serie di considerazioni e spunti di riflessione che i due Corigliano hanno saputo offrire a te e ai lettori? Che novità potrei aggiungere di mio, che non sia imitazione o ricalchi quegli interventi, che hanno il merito e insieme, si direbbe, la colpa di aver quasi esaurito ulteriori possibilità di approfondimenti o di altre chiavi di lettura?

Così è giocoforza riprendere l’analisi, ma stavolta ponendo attenzione più alle parole, direi al vocabolario usato da Giuseppe, che ai pensieri che sottendono e nel loro congiungersi vogliono esprimere. Scomponiamo cioè i testi, sminuzziamo le frasi, scendiamo fin ai singoli termini per cercare di capire da dove parta il pensiero di Giuseppe e come, staccati uno ad uno come quali chicchi di spiga, riescano ricomponendosi a comunicare il suo mondo poetico.

Allora pagina per pagina, rigo per rigo, comincio a evidenziare e a segnare a parte le parole più significative, quelle più ricorrenti, che a parer mio dovrebbero rappresentare maggiormente il tuo mondo interiore che le fa emergere e le metto da parte sgranate come arilli del melograno, facendone mucchietti da confrontare alla fine dell’indagine. Un lavoro che mi consente di entrare nel dettaglio del lessico, facendomi scoprire assonanze, reiterazioni volute, particolarità linguistiche che creano un sistema espressivo tutto tuo e va assorbito gradatamente.

Scopro così che non esiste quasi punteggiatura: qualche rarissima virgola, pochi punti fermi, vari punti di sospensione iniziali o conclusivi, come ad attribuire al lettore la capacità di dar seguito a quanto espresso, di completarlo intervenendo con ciò che la propria sensibilità gli detta, sollecitata dalla libertà che in tal modo gli è lasciata, o di anticipare quanto poi troverà espresso: la poesia diventa così un momento non più individuale, tutto tuo, ma corale.

E così, da quest’analisi minuziosa e quasi certosina, che permette anche di avvertire il gusto di qualche chicca lessicale che sa di antico, di nostalgico o di desueto (falene, fidente, malie, menestrello, ocarina, primigenia, serti, sicli…) emerge un registro linguistico di tono alto, che però sa scendere nel familiare o nel colloquiale, senza mai scivolare nel banale o nel consueto. Come se la materia da maneggiare fosse una di quelle che possono offrire in pochi ma ricevere in molti.

Egidio Lenti

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